Per comunicare con l’Altro abbiamo una missione da compiere: comunicare con noi stessi.
Non darci ordini. Non criticarci. Non lodarci.
Semplicemente comunicare, esprimere.
Per fare ciò sono necessari degli ingredienti.
Un Genitore Interiore con una discreta dose di affettività (ovvero capacità di accogliere astenendosi dal giudizio).
Un Bambino Interiore abbastanza libero da non sentirsi in colpa quando fa una richiesta, abbastanza sensibile da non rifuggire dai propri bisogni. Non così ribelle da boicottare tutto ciò che desidera, non così adattato da compiacere a dismisura (per poi rivendicare il suo diritto all’autonomia).
Quando comunichiamo con gli altri dalla nostra bocca escono per lo più:
-richieste
-frasi che cominciano con “non”, “ma”, “però”, “sei stato tu”
-domande trabocchetto (vogliamo che la persona ci dia una risposta ben precisa ma fintamente le diamo la possibilità di darne un’altra –di risposta- ; inevitabilmente quella persona sarà per noi “poco sensibile” perché ha scelto “liberamente” di risponderci proprio come non volevamo).
Il punto è che gli altri non sono nella nostra testa, tantomeno nel nostro cuore. Gli altri non sono indovini. Anche gli altri hanno i loro problemi.
Non pensiamo allora che l’altro sia sempre un nemico pronto a coglierci in fallo.
Se ci ritroviamo sovente a pensarlo può essere che allora quel nostro Genitore Interno sia tutt’altro che affettivo, bensì molto critico e pronto a cogliere in fallo…NOI STESSI.
Vale una massima –nota- secondo me: “ciò che vuoi sia fatto a te fallo al tuo prossimo”.
Io ci aggiungerei: “puoi farlo al tuo prossimo se lo fai con te”.
Se non mi voglio bene, fatico a volere bene in una maniera autentica ed incondizionata.
Se non mi dico “wow, bravo, ce l’hai fatta” o “sono grato anche per la mia rabbia perché mi insegna delle cose” e così via, non sarò certo incline a dirlo ad altri.
Desidero che l’altro mi ascolti? Imparo ad ascoltarmi.
Voglio che l’altro abbia più pazienza con me? Imparo ad averne io con me stesso e con il prossimo.
Voglio essere amato per quello che sono? Imparo ad amarmi.
Non è semplice, ci vuole IMPEGNO, COSTANZA, VOGLIA.
Ed un aiuto alle volte.
Proviamo a seguire qualche esercizio come:
- parlare in prima persona per dire come mi sento io (non come mi fai sentire tu)
- parlare con il “posso, puoi, è possibile”
- porre le frasi in forma affermativa e non sempre avversativa (del tipo: “non sono in grado di rilassarmi” può divenire “voglio imparare a concedermi più spazio per rilassarmi”).
- comunicare il bisogno che sta sotto alla nostra azione (“io ho bisogno che tu di sentirmi amato, di passare del tempo con te, di sapere che sono importante…”)
- non focalizzarci solo su quello che l’altro fa o non fa o dovrebbe fare ma stare sul sentire.
Come noi pensiamo si traduce in come noi agiamo.
E gli altri allora si fermano ai nostri comportamenti, non a quello che c’è sotto.
Se sono triste perché mi hanno trattato male e non mi do la possibilità di tirare fuori la tristezza e la copro con la rabbia, gli altri fuori vedranno solo il mio comportamento aggressivo.
Si comporteranno con me per lo più cercando di togliere quel comportamento, suggerendomene altri più appropriati o, nel peggiore dei casi, gli altri re-agiranno alla nostra rabbia con una dose superiore di rabbia.
Ecco creato il conflitto.
Tutti ne escono sconfitti.
Se in quel momento invece l’altro ci rimanda il suo dispiacere per come noi stiamo (noi ci aspettiamo che si arrabbi con noi per creare il gioco psicologico) e ci dice che probabilmente dietro quella rabbia può esserci tristezza o paura, non ci giudica, non ci censura, si sofferma sull’emozione e non sul fatto.
Noi saremo invitati a stare sull’emozione e non sul fatto.
Accogliamo, ascoltiamo, diciamo “mi dispiace”, “deve essere difficile”, “proviamoci”, “non importa”.